Illustrazione di Anna Godeassi
Cammino sulle
strisce della grande piazza simbolo della magia bianca, io a queste
cose non ci credo, ma me ne ricordo ogni volta che transito. L’omino
del semaforo sosta con le braccia lungo il corpo, è rosso come il
ciclo mensile che mi piega il tronco a metà. Mi fa male la schiena,
il basso ventre pulsa a battiti regolari, ogni tanto i quadricipidi
s’infiammano fino dietro alle ginocchia, è da un pò che mi è
tornato il menarca doloroso e abbondante, chissà per quale motivo.
Giro il volto a
destra, una macchina imbocca la carreggiata e romba veloce, le mie
mandibole serrano ancora di più la stretta, sono le 13, avevo
promesso a Paola che sarei stata puntuale alla mezza per pranzo, do
un’occhiata veloce e attraverso.
Accelero il passo e
mi viene in mente che devo andare a comprare un litro di latte di
cocco dopo pranzo, recuperare il materiale per il volontariato
all’associazione e filare in via Genè alle quattro. Sono già in
ritardo, non ce la farò mai, forse posso arrivare alle quattro e
trenta, ma non oltre, corro, mi dimentico di respirare, entro in
affanno, la testa inizia a pesare dalla base del collo. Bisogno di
sdraiarmi, l’unico rimedio per fare una pausa è appoggiare la
schiena a terra, posizione supina, palmi verso l’alto, respiro
profondo.
Dicono che col
respiro profondo la testa inizi a rallentare, I pensieri si facciano
radi e l’allarme rientri, io ci riseco solo a casa, da sola senza
impegni per I due giorni successivi.
Ricevo una mail,
domani supplenza di quattro ore. Quattro ore con la stessa classe,
livello A2 di italiano, falsi principianti, questi parlano, ma non
troppo, non so come impostare la lezione, dev’essere articolata. Un
motorino sfreccia proprio mentre svolto in corso Palestro, il rumore
assordante aumenta la voce del mio paziente interiore. Non ho
energie, mi sento debole, irrigidisco le spalle per far finta di
niente e andare avanti, quella signora seria che mi guarda distratta
non sa della mia croce.
Sono in ritardo, il
latte di cocco, il volontariato, stare con altre persone per almeno
due ore, ma ora devo camminare in questa città odiosa dove nessuno
rispetta I rossi e la gente suona il clacson ad ogni minuto. La
supplenza, la testa mi scoppia, devo distendermi.
Sicuramente con
Paola ci metteremo a parlare, non ho voglia di tirar fuori nulla da
me, mi vien male solo al pensiero di dover ascoltare voci esterne al
mio malato che tanto parla sopra agli altri, mi distoglie dai
dialoghi e finisco per far delle grandi figure di merda perché la
gente pensa che non la seguo.
Giungo al portone,
suono il campanello Rossi, mi apre subito, quarto piano, un’odore
di tagliolini ai funghi fuoriesce furtivo dall’ingresso, scende venendomi incontro, indovino
ad ogni scalino il menù: frittata di zucchine, tagliolini ai porcini
con una buona dose di aglio e prezzemolo e insalata, quella c’è
sempre.
Arrivo alla porta
con un pò di fiatone, poco, questo malessere mi da energie da
vendere sotto sforzo, anche se mi strema appena mi fermo. Mi gira la
testa, Paola mi abbraccia, annuso la piega appena fatta, ogni boccolo
biondo sa di agrumi dolci, misto a spuma per fissare l’antigravità.
Appoggio la borsa a
terra in ingresso, mi levo le scarpe e transito verso la cucina,
guardo con bramosìa il letto che spesso mi ospita, è tardi, non
posso sdraiarmi nemmeno un secondo. Cavità oculari, mandibole,
gengive, muscoli cervicali, lingua: tutti spingono verso la sommità
della bocca stringendo tra I denti un’invisibile dolore senza ha
forma.
Dicono che si chiami
ansia, io di quella roba non ne ho mai avuta.
-Come stai?
- Abbastanza bene,
mi sento debole. Tu?
Butto un occhio ai
fornelli ricoperti di pentole, non ho molta fame, devo dribblare tra
una pietanza e l’altra, cercando di essere ferrea.
-Paola, gratto il
formaggio?
- Si Chicca grazie!
- Sono andata a fare le solite commissioni, sempre di fretta.
- Sono andata a fare le solite commissioni, sempre di fretta.
Cucina con le unghie
appena sfornate, un gel liscio trasparente a brillantini rosa che
cambia il riflesso a seconda di come muove le mani. Paola brilla e mi
vede un pò giù. Già lo so, non me lo chiede il perché.
- Hai sentito la
pestifera? - Continua con non chalance
- No, non la sento
da un pò, ma non ti preoccupare, laggiù la connessione va e non va,
poi sai che tua figlia è una selvaggia. Va tutto bene.
- Non ho sue notizie
da una settimana, non può comportarsi così.
In silenzio penso
che in questo momento la mia amica dall’altra parte del mondo non
esiste, che la sua preoccupazione non esiste, vedo solo una palla
gigante che sosta sul mio stomaco e io non so cosa fare. Non ho un
cavolo di soldi, pochi impegni, sono preoccupata, la testa mi scoppia
e devo parlare, rispondere, sorridere, essere, quando vorrei solo
svitarmi la testa e andare in camera mia.
Peccato che non ho una camera mia.
Peccato che non ho una camera mia.
Vivo dagli altri,
perché non riesco nemmeno a pagarmi un affitto e gli altri, sono
delle persone che mi amano e mi conoscono e sanno benissimo che
faccio tutta questa fatica. Non mi chiedono niente in cambio e io
penso solo di essere un peso.
Mentre è girata a
scolare la pasta guardo fuori, c’è un tempo indefinibile, bianco,
freddo, poco accogliente. Mi domando perché sono ancora lì, in
quella città che da un anno e mezzo mi fa sclerare.
- Chicca è pronto,
passami il piatto.
Le porgo il piatto
piano arancione, quel colore, come il fatto di sapere che c’è
Paola, mi mette calma, anche se in questo momento vorrei rinchiudermi
al buio.
-Senti Chicca uno di
questi giorni potremmo uscire assieme, magari vediamo due negozi, a
Natale non ti ho nemmeno fatto il regalo.
- Si vediamo, magari
sabato se non vado in gita in montagna.
-Fammelo sapere per
tempo così mi organizzo.
Il latte di cocco, il materiale, l’associazione, le strade pericolose, fa freddo, la supplenza, lo shopping, I muscoli sotto le orecchie responsabili dell’apertura della bocca effettuano un altro giro di vite, le labbra si stringono in una smorfia seria, gli occhi si sforzano di stare aperti. Faccio un respiro, allento di due giri la stretta e ficco in bocca un altra forchettata di tagliolini. Sono ottimi! Lo stomaco è stretto al fronte, stasera avrò una patina bianca sulla lingua e dovrò saltar la cena. Non ce la faccio più. Me ne devo andare.
Andare dalla mia
paura di non essere valore, occhi tesi.
Andare dal collo in
fiamme, risposta inesorabile al timore di non farcela.
Andare via dalla mia
incapacità di mettere tre parole in fila, sfiducia estrema nelle mie
capacità.
Scappare
dall’impossibilità di trovare lavoro in questo cazzo di posto,
spalle ricurve, gola pesante.
Volatilizzarmi dalle
mandibole trincerate, chiusura verso nuove possibilità, senso di
sfiducia estremo.
Fuggire dalla mia
assurda assenza di energie, io sportiva, creativa, inesauribile fonte
di idee e scenari impensabili.
Sono qui, a
millimetri da me, senza la voglia di vivere il mio dolore e il
desiderio di superarlo.
Attendo novità.